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Gen 27, 2018 - racconti    Commenti disabilitati su FAVOLA – Racconto di Renzo Cigoi

FAVOLA – Racconto di Renzo Cigoi

IL TORRENTE IN PAESE

Ho letto questo racconto intenso di Renzo Cigoi e la mente é corsa veloce all’immagine dell’Olocausto,

i piccoli abeti strappati dalla nuda terra e destinati ad arredare le calde case borghesi,

accatastati sui grandi camion, i rami spezzati, gli aghi dispersi lungo la via,

mi riportano alla cattiveria umana, all’insensibilità dell’uomo verso la natura e verso gli altri uomini.

Un’appello:

lasciate gli abeti là dove devono stare,

lasciate la disumanità lontano dai vostri cuori.

Parole forti di Renzo Cigoi, immagini potenti di un grande scrittore

capace di suscitare emozioni forti e riflessioni costruttive.

Da leggere, assolutamente.

 

FAVOLA racconto pubblicato all’interno della raccolta “ Basso Continuo  ( e altri racconti ) “ di Renzo Cigoi

Edizioni Opposto 2013©. Tutti i diritti sono riservati.

 

Recensione di Federica Bignardi :

 http://www.leggeretutti.net/site/basso-continuo/

 

FAVOLA

Come é sempre stato, perché la Storia non ha mai insegnato nulla a nessuno, c’era una volta una fredda mattinata di metà dicembre. Nella grande radura, immersa fino a quel momento in un silenzio d’acquario, come una mandria di animali preistorici dalle fauci fumanti arrivarono gli autocarri. Ai margini dell’abetaia buia e profonda, tra l’abbondante Santoreggia e le gramigne alte e giallognole, sottili e appiattite sfumature di tenero verde brillavano pulsando sotto l’esile crosta di rugiada ghiacciata come schegge di smeraldo in un covone di fieno. Erano le foglie picciolate a rosetta e fiori in spighe verdognole della Piantaggine maggiore che, aderenti alla terra, cercavano un residuo tepore; vicino ad esse, da sembrare quasi pianticelle di fragola, stavano accartocciate quelle dell’Edera terrestre e, un po’ dappertutto, le foglie a lama seghettata del Tarassaco, o Dente di leone, o  la cicoria selvatica che d’estate produce quella simpatica margherita gialla simile al fiore dell’Arnica e poi i soffioni. Tra tutte quelle tonalità di possibili verdi, il più cupo, carico e opaco, da sembrare quasi di cartone, era il verde del Pungitopo, che con le sue bacche rosso fuoco a prova di qualsiasi freddo emergeva dal sottobosco come un segnale di pericolo. Equipaggiati come esploratori polari, gli uomini scesero dai camion inoltrandosi nel folto del bosco con le armi in pugno come una muta di cani all’inseguimento della selvaggina. Difatti, immediatamente si avverti nella foresta una specie di timido fruscio di creature in fuga; qualcosa d’impercettibile, però, che più che vedere s’intuiva: forse un soffio, un caldo brivido di pellicce e fiati ansimanti… Poi tutto si confuse nelle grida degli uomini scatenati e il rumore di cascata che produceva la bora tra i rami delle conifere: boato di uomini e cose che pareva un profondo lamento della Terra. Stanandoli uno a uno nella macchia, tra il brusio dondolante e malinconico dei più grandi, tristi, immobili e impotenti davanti a quella “strage di innocenti”, gli uomini cominciarono ad abbattere gli abetini la dov’erano più fitti. Le vittime erano giovani e ancora bassi, ma quasi tutti ben formati, con i finali tripartiti dei rami di un verde metallico fitti di lunghi aghi come la coda delle volpi argentate, eleganti e forti, pronti per affrontare l’inverno e il gran freddo dell’altipiano carsico. Agli occhi di chi non apparteneva alla loro specie, una particolare nota sembrava renderli del tutto uguali: piccoli e meno piccoli, tutti possedevano una bellezza stupenda e, nella loro fiera immobilità, avevano soprattutto un aspetto talmente nobile e orgoglioso da incutere quasi soggezione. Dalla cappa dell’infinito plumbeo comincio a scendere un pesante nevischio. L’abetaia si copri di un bianco sudario, ma ben presto divento fradicia e molle come una palude. I più grandicelli, appesantiti dalla neve bagnata, si piegavano sotto i colpi delle accette lasciandosi scivolare sfiniti lungo i rami del vicino con un rumore di corpo senza vita che cade nel fango. Gli uomini di Erode lavoravano sodo: allargandosi a ventaglio per compiere meglio la strage, come un uragano penetravano in ogni recesso della selva con un metodo collaudato da anni, che consisteva nel rastrellare il bosco stanando con sadica gioia i più piccoli. Questi si tenevano stretti uno attaccato all’altro quasi in una specie di muto terrore; e quando gli uomini ne trovavano uno particolarmente bello– la chioma folta con la punta regolare e diritta, le braccia aperte e simmetricamente tese dall’alto in basso, dalle più corte alle più lunghe, in modo da formare una verde piramide, – si chiamavano l’un l’altro; pero non perche incantati da quella magnificenza della natura, ma solo per commentare la cifra che sarebbe stata sborsata dai ricconi di città per un’esemplare del genere. Un gruppo di quattro o cinque battitori che lavoravano assieme disprezzavano quegli sciocchi commenti dei compagni meno esperti, in quanto per loro quel massacro non era un divertimento ma un lavoro serio, era il mestiere, il pane pagato a giornata e una preda valeva l’altra: i soldi li avrebbe fatti il padrone dei camion, non certo loro che abbattevano gli alberi! Importante era stanare i piccoli perche i più richiesti, e anche qualcuno un po’ più grande, magari violando la legge che gli proteggeva. Oppure, esauriti gli abeti di taglia bassa, tagliare le cime di quelli più alti, mutilandoli cosi di una regolare crescita, tanto non controllava mai nessuno! Ma bisognava stare molto attenti di non rovinarli troppo durante il taglio; per il resto si poteva picchiare e segare dove capitava… Il filo delle asce accuratamente affilato si abbassava con precisione – quasi in maniera indolore, si sarebbe potuto pensare, – su quelle verdi esistenze clorofilliane che cadevano senza un lamento o un qualsiasi suono percepibiledall’orecchio umano. Ed era proprio questo trascendente silenzio della vittima che aveva in se qualcosa di terrificante e di misteriosamente primordiale. Ma qualcosa di simile a una specie di muta ribellione doveva pur esserci in quella verde immobilità, se al momento di cadere sembrava che l’aureola luminosa, di cui quegli esseri erano soffusi quando dimoravano nella terra, degradasse in toni sempre più smorti e opachi, per poi sparire quasi del tutto: forse la loro voce era un ultrasuono, o il piccolo schianto di ossa spezzate, se poi quella particolare luce di esseri vivi svaniva nel buco nero dell’atmosfera del pianeta… Da quel momento, se apparentemente tra uno di quegli esseri che erano stati vivi e vegeti nel bosco e un’esatta copia di plastica non passava che una minima differenza, ad ampliare questo “minimo” era proprio quella luce aureolare svanita per sempre. Che pero gli “uomini di buona volontà” avrebbero cercato di rimpiazzare con quella elettrica, colorata e intermittente, stupidamente convinti che fosse migliore come tutte le loro trovate. La specie umana, in occasione dei suoi annuali ludi pseudo religiosi, perpetrava l’annientamento di quella specie vegetale ripetendolo regolarmente da tempo immemorabile. Per altre motivazioni o cause si sarebbe usata una parola diversa, più appropriata; ma le “motivazioni” o “cause” avrebbero dovuto toccare direttamente coloro che commettevano questi delitti contro la specie a cui appartenevano; allora lo avrebbero chiamato “genocidio”, “shoah”, o anche “olocausto”; parola in ogni caso sbagliata, perche nessun uomo, a parte Empedocle, si e mai dato in olocausto. La nostra specie sacrifica solo esseri innocenti. I deforestatori trasportarono quegli esseri bellissimi sugli autocarri – pero di una bellezza ormai imbalsamata, inerte al vento e alla neve, alla pioggia e al sole, che solo la fine di un ciclo vitale, la morte, e in grado di conferire, – accatastandoli uno a uno all’interno di quella specie di bara comune provvisoria in un groviglio di chiome, rami, aghi, cortecce ferite, tronchi scorticati e sanguinanti di dense, profumate resine, vivi solo in apparenza perche verdi. Dopo un viaggio di chilometri, arrivarono in città e li scaricarono su una stupenda piazza a selciato romano. La piazza aveva una grande fontana nel mezzo contornata di piccioni e due bellissime chiese, una delle quali con le cupole azzurre che si confondevano nel cielo come enormi nuvole primaverili sospese nel vento. L’altra esibiva un imponente pronao, sulla sommità del quale una fila di santi taumaturghi a grandezza naturale vegliava sul popolo sottostante. Arrivarono altri uomini che li allinearono sul selciato come giovani soldati morti, ma sul loro mantello il profumo della foresta e della terra del bosco non si sentiva piu: si erano portati dietro soltanto una lieve fragranza di resine, come l’odore del sangue di una mortale ferita; ma ben presto sarebbe svanita anche quella nell’aria satura di gas di benzina e zolfo. A ognuno venne inchiodata una croce ai piedi per farli stare diritti come quando erano nella foresta; a certi, prima  di metterli sopra la croce, gli segavano le braccia piu lunghe, che poi gli uomini accatastavano separatamente in un mucchio: quelle ramaglie servivano per confezionare dei manichini somiglianti ai cadaveri a cui le avevano strappate. Tutto quel lavorio veniva fatto con grande frenesia, poiche tra qualche giorno la gente sarebbe arrivata a frotte per comprare e caricare sul tetto dell’auto uno di quegli esseri in coma profondo, portarlo in una casa surriscaldata, vestirlo di elettricità e neve di plastica e poi collocarlo davanti al caminetto, ai piedi del quale era già allestito il Presepe con San Giuseppe, Maria e il bambino Gesù nella mangiatoia; una casa dove sarebbero morti disidratati e ustionati tra bottiglie di spumante e panettoni, brindisi, baruffe, pianti, rutti e sghignazzi, e a mezzanotte in punto soffocati da mille esplosioni e da un potente: Buon Natale!! urlato da tutti quegli infelici figli del consumismo senza pero comprenderne il significato… Dodici giorni dopo, i cassonetti dei rifiuti della città si sarebbero riempiti di centinaia di quelle secche spoglie, chefino al momento di quel blasfemo boato avevano sperato dipotersi risvegliare nel vento della foresta dov’erano nati.

Set 13, 2014 - racconti    Commenti disabilitati su DANIMARCA – “La dama silenziosa del Nord “

DANIMARCA – “La dama silenziosa del Nord “

Karen Blixen scrisse in

“Racconti d’Inverno”:

IL GIOVANOTTO CON IL GAROFANO

“…..ecco che il mercante le portò un antichissimo vaso blu.

Non appena ella lo vide gettò un grido terribile: ” Eccolo!

L’ho trovato finalmente! Questo é il blu vero. Oh, quanta allegria mette nel cuore! Oh, é frizzante come una brezza, profondo comme un profondo segreto, pieno come non dico che cosa ” Rimase a contemplarlo per sei ore e poi disse al medico e alla sua dama di compagnia: ” Ora posso morire. E, quando sarò morta, dovrete togliermi il cuore dal petto e metterlo nel vaso blu. Perché allora tutto sarò come allora. Intorno a me tutto sarà blu e al centro del mondo blu il mio cuore sarà innocente e libero, e batterà sommesso, come una scia che canta piano, come le gocce che cadono dal ramo”. Poi domandò: ” Non é dolce pensareche se soltanto si ha un pò di pazienza tutto quelo che é stato ci verrà restituito?” E subito dopo la vecchia signora morì. “

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IL CAMPO DEL DOLORE

” Il basso e ondulato paesaggio danese era silenzioso e sereno, misteriosamente desto nell’ora che precede il levar del sole. Non c’era una nube nel cielo pallido, non un’ombra nel perlaceo crepuscolo che avvolgeva i prati, le colline e i boschi. La bruma si stava alzando dalle valli e dalle gole, l’aria fresca, l’erba e le foglie stillanti di rugiada. Non guardata dagli occhi dell’uomo, e non disturbata dalla sua attività, la campagna respirava una vita senza tempo, per la quale le parole erano inadeguate.”

“….I tigli erano in fiore. Ma in quel primo accenno di luce soltanto una tenue fragranza fluttuava nel giardino, un aereo messaggio, un’eco profumata dei sogni trascorsi nella breve notte estiva.”

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IL BAMBINO CHE SOGNAVA

“…Erano giunti sul limitare del bosco. Dal cancello potevano spaziare con lo sguardo sull’ampia distesa del panorama. Dopo la verde oscurità della foresta, il mondo di fuori appariva incredibilmente scolorito, come se la luce abbaggliante del mezzogiorno lo avesse calcinato. Ma dopo un poco i colori dei campi, dei prati e dei radi boschetti si precisarono all’occhio, uno per uno. C’era un tenue azzurro nel cielo, e tenui cumoli bianchi di nuvole si innalzavano lungo l’orizzonte. La segale ancora verde stava per spigare, dove le dita della brezza la sfioravano, correva in lunghe, lente ondate sul terreno. I casolari dal tetto di paglia emergevano sullal terra fluttuante come isole quadrate, bianche di calce; tutt’intorno le siepi di Lillà protendevano il loro chiaro fogliame e, in cima, grappoli di pallidi fiori. Udirono in lontananza il rumore di una carrozza e sulle loro teste il cinguettio incessante di innumeroveli allodole.”

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Clanned & Bono

” In a lifetime”

https://www.youtube.com/watch?v=b_klil_eOEY

Ott 12, 2013 - racconti    4 Comments

IL GIARDINIERE – TENTATIVO DI RACCONTO NOIR –

Salgo sul furgone rosso sporco e imbocco la statale 24 direzione : ignota. Accendo la prima sigaretta della giornata e sono le otto di sera. Aspiro profondamente,

una boccata di nicotina pura sparata dritto ai polmoni malconci. Espiro lentamente, assaporo il fumo ringhiare contro la gola, carta vetrata, ruvide pareti vissute e rivissute. Le labbra socchiuse dirigono il fumo verso lo specchietto, rendendo l’immagine riflessa opaca e

scura. Sopraciglia ricurve e folte scendono su palpebre rigide e tirate. Nascondono occhi neri come la pece e ciglia fitte come rovi spinati. Il naso dritto e aquilino

spicca tra guance scarne ed abbronzate, indica u punto preciso: la bocca sottile ed imbronciata disegna un ghigno amaro. I miei occhi ritornano alla strada deserta, linea bianca continua, filari d’alberi ai lati corrono come bravi soldati impettiti. Le ruote del furgone inghiottono il grigio asfalto velocemente. Il nulla avanza fuori e dentro di me. Stringo il volante, le nocche sporgono come cime di montagna, ghiaccio rovente, graffiato e umiliato più volte, grida sofferenza. La fede argentata avvolge  l’anulare con forza, non brilla più, da quando lei se n’è andata. Un giornale stropicciato abbandonato sul sedile posteriore rotola avanti ed indietro, segue l’onda delle curve, scandisce il ritmo del viaggio. Odore di smog e campagna entra dal finestrino, pungente, acre, disgustoso come i miei pensieri contorti. Chiudo ed il silenzio entra. La barba ruvida come le mie parole mi graffia il viso e il sudore ristagna tra i peli secchi come rami in autunno. Mi strofino il mento come a cacciare via i fastidi e le preoccupazioni. Ho sonno. Fermo il furgone in un piccolo piazzale deserto. Tiro già lo schienale e chiudo gli occhi. Devo decidere cosa fare domani. Se ci sarà, domani. Respiri profondi accompagnano i ritmi del mio cuore, organo vitale e pulsante, ospite di questo mio corpo stanco e ferito. L’istinto di sopravvivenza prevale ed il sole sorge ancora una volta. Pallido, avvolto dalla nebbia mattutina spunta tra il verde acido ed il grigio, irradia la sua luce rosa opaca ed appiccicosa sulla terra melmosa. Il domani è arrivato e l’oggi prende il suo posto. La  staffetta del tempo fa il suo corso incurante di noi ed il resto del mondo. I giorni corrono nella pista della vita e non toccano mai il traguardo, non lo intravedono neppure. Continuano a scambiarsi la staffetta senza bisogno di voltarsi. Così è, e così sempre sarà. Avvio il furgone, ho fame e sete. Percorro qualche chilometro. In lontananza un neon segnala la presenza di un bar.

Parcheggio. Entro. Ordino caffè, brioche ed una bottiglia d’acqua. Mi siedo ad un tavolo sguarnito. La cameriera arriva stanca, trascina lentamente le ciabatte bianche ospedale verso di me. Occhiali spessi, capelli raccolti in una cuffietta rosa, grembiule rosso e calze nere avanzano verso di me. Biascica un buongiorno striminzito e appoggia il vassoio sul tavolo. Tira fuori lo scontrino e  si allontana. L’odore del caffè mi sveglia e mi rigenera, la brioche è calda e ripiena di marmellata dolce. Gusto tutto come se fosse la mia prima colazione. Bevo l’acqua come se fosse di fonte e mastico lentamente per tenere a lungo il boccone in bocca ed accontentare le mie papille gustative ormai bruciate dal fumo.

Lo stomaco è a posto. Mi alzo e mi dirigo alla toilette. Mi rinfresco il viso e le ascelle, puzzo.

Pago il conto. Un biglietto stropicciato appeso alla cassa attira la mia attenzione.

“ CERCASI GIARDINIERE ESPERTO A  CISA . REACARSI IN VIA DEGLI ANGELI, N° 14.

FAMIGLIA BOCASSINI.” “ Scusi, signora quanti chilometri mancano a Cisa?”

“ Circa 15, rimanga su questa statale, è il paese dopo di questo.” “ C’è un albergo qui?”

“ Si, avanti 500 metri  trova la pensione “ Luisa”” “ Grazie, arrivederci” “ Grazie a lei, buongiorno”.  Un piccolo albergo, bianco, due piani, una tenda verde sovrasta l’entrata a vetri. La porta cigola,  quattro poltrone verde bottiglia occupano lo spazio angolare a destra. Un piccolo bancone bar  sopravvive nell’angolo a sinistra. Il tappeto rosso sbiadito mi conduce dritto diritto alla portineria. Non c’è nessuno. Il campanello dorato – spento chiama uno squillo.

Pigio con il palmo della mano, un dling sonoro riecheggia nell’hall.  Guardo il riquadro in legno delle chiavi, batocchi verdi penzolano da ganci come corpi morti. Una macchia sul muro sbrodola muffa nell’angolo. L’odore di alcol si mescola a quello di cucina, lo stomaco si rivolta e si contrae. “ Ho sentito di peggio”. Deglutisco. Silenzio. Non arriva nessuno. Risuono due volte. “ Il postino suona sempre due volte”, “Pessima battuta….”. La porta a destra con la scritta “pri ato “, la lettera V è scappata dalla disperazione, si apre e sulla soglia compare la signora Luisa.  Avanza con il capo chinato, si sta slacciando un grembiule macchiato di sugo, se lo toglie, alza lo sguardo e due occhi neri come la pece mi squadrano dalla testa ai piedi. “ Buongiorno, mi scusi, ero in cucina, cosa posso fare per lei ?”

Il tono freddo e distaccato indurisce i tratti del suo volto, scarno e pallido. I capelli neri sono raccolti in uno chignon perfetto. Niente gioielli, un velo di rossetto ricorda a tutti che lei è stata una bella donna. Potrebbe ancora esserlo, ma la vita le ha tolto ogni velleità. Mani lunghe ed affusolate prendono un registro dal cassetto. “Buongiorno, vorrei una stanza per una notte”. “ Va bene, pagamento anticipato, Euro 65,00 compresa la prima colazione. Se vuole pranzare o cenare sono Euro 10,00 di supplemento.”“ Perfetto, prendo la camera con la colazione. “ “ Mi serve un suo documento per la registrazione. “ Intanto mi scruta il viso, scannerizza le pupille dei miei occhi come un radar, scende al collo e alle mani. Le porgo il documento e rimango in piedi ad aspettare. Scrive i miei dati velocemente,, non parla, non fa nessuna domanda. Prende i miei soldi lasciati sul bancone e mi da la chiave. Numero 12. “ Primo piano Signor Castaldi”.“ Grazie.” “ Le scale alla sua destra”.  Salgo lentamente, una finestra impolverata lascia intravedere un cielo plumbeo, una lastra di metallo  con al centro un disco giallo opaco. Il mattino nella Pianura Padana offre spettacoli del genere. La camera numero 12 è piccola, letto piccolo, armadio piccolo, bagno piccolo. L’odore di chiuso danza indisturbato e irrita le mie narici. Apro i vetri, una lieve aria fresca entra a ricacciare la muffa della morte nei cassetti del ristagno. Disfo la valigia, ripongo i miei abiti puliti sulla sedia e do il via alla mia rinascita.

Doccia, rasatura e taglio di capelli. Lo specchio, ricoperto dal vapore, riflette l’immagine di me come un vetro satinato, non si distinguono i contorni, il corpo si mescola al mobiletto dietro di me. “ Chi sono?”. Passo il palmo della mano sullo specchio. “ Sono io.”  Occhi negli occhi. Anima nell’anima. Volontà nella volontà. Il gonfiore delle palpebre è sparito, le labbra hanno  riacquistato il colore, la piccola cicatrice sulla guancia destra è ancora lì. Marchio indelebile, perenne, come un pino  di montagna. Incidente sul lavoro. Sono giardiniere ed uso parecchi attrezzi taglienti. Indosso pantaloni marroni di velluto ed una felpa color nocciola.

Un paio di scarponcini da montagna, calze marroni e cintura scura. Un colore indecifrabile per me, né nero, né blu, né grigio. Mah?! Cintura scura e basta. Tocco finale: berretto blu e giacca a vento blu. Chiudo la porta. Chiave sul bancone. Lasco “ Pensione Luisa” tra le braccia scarne  di se stessa. Segue le indicazioni e dopo poco compare il cartello stradale bianco con la scritta nera “ CISA “. Al primo incrocio svolta a destra, trova un parcheggio vicino e scende. Quel grande viale alberato conduceva in centro. Marciapiedi curati, casette singole con giardino ai lati, palazzine con cortili e , qua e là, ville stile liberty ad impreziosire la cittadina. Cammino con il viso rivolto verso destra, ammiro i quadri ai lati. La pace è la tranquillità di questi giardini è surreale. Quella lavanda secca no. Quella è realtà. I rami rinsecchiti stonano in quel prato perfetto. Nessuna cancellata a proteggere la casa. Una stradina di ciottolato rosso invita a raggiungere la porta d’ingresso. Suono il campanello. Compare una ragazzina sui 15 anni circa, trecce bionde, occhi azzurri, sguardo penetrante e sospettoso.“ Buongiorno signorina, mi chiamo Mario Castaldi.” “ Bé, non ci serve niente, grazie” La creatura parla con tono altezzoso. “ Veramente, non vendo nulla. Le faccio notare che la lavanda nel suo giardino sta morendo. Io sono un giardiniere, ed è un peccato lasciarla morire così. Posso darle u’occhiata, vediamo se posso fare qualcosa.” “ Al giardino ci pensa mia madre, non abbiamo bisogno di nessun giardiniere”.  Mi fissa intensamente la cicatrice sulla guancia ed un lampo di paura attraversa i suoi occhi. “ Ora può anche andarsene, grazie.”La porta si chiude. Rimango in piedi incredulo. “ Che ragazza antipatica.” 

Attraverso il giardino, l’aiuola di lavanda grida aiuto disperatamente. Mi tocco la tasca, sì la mia forbice è lì. Mi chino sulla pianta moribonda, taglio i rami secchi, tolgo via le foglie appassite, smuovo un po’ di terra lì attorno, e innaffio con la mia bottiglietta d’acqua i rami e la terra. La guardo. “ Ecco, piccola, forza ora potrai crescere.” Mi allontano, svolto a destra, mi volto e riguardo la casa, le tende erano tirate, la ragazzina con le trecce mi fissa. Nessun cenno. Occhi gelidi lanciano sfide. Contraccambio. Raggiungo la piazza ed entro in un bar. Chiedo dove si trova Via degli Angeli. Non è lontano. Oltre la chiesa, la prima via a sinistra. Poca gente in giro. Qualche signora cammina sotto il portico con la borsa della spesa, anziani dentro i bar e qualche bici lungo il ciottolato. Trovo il numero 14. Suono il campanello.

Una signora ben vestita mi apre. “ Buongiorno, mi chiamo Mario Castaldi e sono qui per il posto di giardiniere. “ Prego si accomodi. Le chiamo subito la Signora Bocassini”.Casa austera, entrata imponente, arazzi alle pareti e armature lungo il corridoio.

Mi siedo nell’angolo. La grande sedia con braccioli ricorda la Spagna e l’Inquisizione. Il pavimento in marmo bianco e nero sottolinea un passato fascista. Rumore di tacchi rimbomba nel salone. Dalla lunga scalinata scende una figura minuta e aggraziata sorvola il pavimento come una libellula. Si avvicina porgendomi la piccola mano candida, è calda come pane e liscia come velluto. “ Buongiorno, piacere, Amanda Bocassini, mi segua. “ “ Piacere, Mario Castaldi, la seguo.” Entriamo in un piccolo salotto accogliente. Ci sediamo sul morbido divano.

Una libreria in legno bianco emana saggezza. La signora parla educatamente con un leggero accento inglese. Mi spiega le condizioni, le esigenze e la retribuzione del lavoro con fare gentile ma autoritario. E’ lei la padrona di casa. E’ lei la padrona del giardino. Non vuole sapere nulla di me. Non vuole le mie credenziali. Si alza e mi accompagna in giardino.

“ Bene, Signor Castaldi, ha tutto il pomeriggio per dimostrarmi la sua bravura. La lascio solo.

Faccia ciò che ritiene più opportuno. Laggiù troverà tutti gli attrezzi del caso. Buon lavoro.”L’ampia vetrata si chiude . Un giardino immenso si apre davanti a me.Lo spettacolo della natura allarga le sue braccia verso di me. Un piccolo labirinto attira la mia attenzione, Un capolavoro di fantasia ed intelligenza. Non è ben curato, rami e foglie sporgono disordinatamente, radici spuntano dal terreno ed il prato è molto secco. Non va bene. Procedo con ordine. Lavoro con precisione, mi occupo di più punti sofferenti. Alcune piante secolari necessitano di potatura e il piccolo stagno piange ninfee colorate e pesci rossi. Una bava di vento gelido mi distrae. Guardo il cielo. E’ sera. Il tramonto è limpido.

Smog e nebbia sono lontani. Raccolgo gli attrezzi. Riordino il ripostiglio. C’è disordine. La porta di legno cigola. In piedi, Amanda mi sorride dolcemente, un frammento di cielo azzurro illumina la stanza. “ Signor Castaldi, lei è assunto.” Si presenti domani mattina alle nove in punto. Clelia, la governante le darà istruzioni. Buonasera. Può uscire dal retro.”

“ Grazie, accetto il lavoro. Buonasera a lei”. Il sole scompare oltre la porta. La richiudo dietro di me. Imbocco il vialetto di ghiaia bianca ed esco dal cancello ricoperto d’edera. Guardo l’ora: le 17.30. “ Bene, ho tempo”. I lampioni “ Art déco” illuminano

il viale, luce antica, lontana, fievole incanta il cielo scuro. Ritorno alla piazza e chiedo ad un passante dove posso trovare un’agenzia immobiliare. C’è n’è una oltre il Comune, un palazzo antico dai mattoni scuri. Una piccola insegna colora “ Agenzia immobiliare CERCOCASA”. Sbrigo le pratiche per un monolocale fuori centro, conveniente e ammobiliato. Guardo le foto al computer. Firmo il contratto. Chiavi in mano. L’agente mi dà la mano soddisfatto. Mi lascia il suo numero di telefono e si raccomanda di chiamarlo per ogni evenienza. Mi fermo in un bar e mangio un panino. Bevo birra chiara e caffè nero, amaro. La piazza è deserta. Sono tutti a cena. Il barista gioca a carte con un cliente e due ragazzini cinesi fanno suonare il  video poker. La tranquillità aleggia come brezza marina. “ Dove sono stato tutto questo tempo? E’ questa la realtà?”  Pago il conto ed esco. Il silenzio è quasi atroce. Un fermo immagine imponente. Non si muove nulla. La nebbia nasconde i contorni, fumo  negli occhi. Luci fioche e deformate ondeggiano sul cielo della piazza. Pennellate di grigio dipingono la notte padana. Cerco di individuare la direzione da prendere. Ripasso nella mente i punti di riferimento e mi incammino verso sinistra. I miei passi echeggiano tra il silenzio. Guardo avanti ma non vedo nulla. Un limbo sospeso tra terra e cielo mi conduce chissà dove. Il freddo entra nelle ossa. Pensieri contorti vagano nella mia mente. Paura? No, non credo. Fastidio? No, nemmeno. Inquietudine? Forse. Una figura in nero sbuca fuori dal grigiore, esce dalla scatola dei regali come uno scherzo di carnevale con le molle. Un viso bianco e scarno appare vicino al mio. Ci scontriamo. “ Mi scusi” “ Ehi, ma stia attento no?” “ Non vede dove va? E’ ubriaco?” “ No, non vedo dove vado. Non sono abituato al questa nebbia e lei è sbucato all’improvviso dal nulla.” “ Capisco, fa niente và. Posso aiutarla? Mi sembra confuso.”“ No, no grazie. Non ricordo il nome della via. Vado a naso. Grazie lo stesso e mi scusi ancora.” “ Ok, come vuole, buonasera.”. “ Arrivederci”. Riprendo il cammino. Ecco il viale, i lampioni sono inconfondibili. Poche macchine parcheggiate, quasi tutte dentro i garage. Il furgone c’é. Ritorno alla pensione “ Luisa “. La riga bianca sull’asfalto è andata in vacanza alle Barbados, con giusta ragione. Non si vede un’accidenti di niente. Mi affido alla linea laterale. Speriamo bene. “ Ma dove cavolo sono finito?”. La nebbia inghiotte ogni cosa e se ne strafrega.  Ecco l’insegna. Meno male. Arrivato. La porta è chiusa. Suono due volte. Una luce si accende al primo piano. Aspetto. Un uomo alto e robusto in vestaglia  apre la vetrata. “ Buonasera, sono Mario Castaldi, il cliente della stanza numero 12”. “ Buonasera, so chi é. Prenda pure la chiave. Se deve riuscire chiami il numero nove e scenderò ad aprire.” “ Grazie, non uscirò. Andrò a dormire. A che ora servite la colazione?”“ Dalle 07.00 alle 10.00”. “ Ok, buonanotte”.  “ Buonanotte a lei”. La luce della sala

si spegne e raggiungo la mia stanza. Accidenti a me. Ho lasciato la finestra aperta. Freddo pungente e nebbia. Bella nottata mi aspetta. Poco male, l’odore sgradevole se n’è andato. Niente pigiama. La coperta nell’armadio basterà. Domani è un altro giorno. Il sorriso di Amanda mi chiude gli occhi serenamente. Good night my darling.  “ E’ il rumore di un gallo o sbaglio” Mi alzo ancora un po’ intontito e apro la finestra. “ Eh già un gallo. Sono le 06.30” La foschia si mescola al rosa dell’alba e gli alberi in lontananza assumo forme rarefatte. Un paesaggio caro agli impressionisti e anche  a me. Il gallo se ne sta appollaiato sul di un tronco spezzato. Si liscia le piume e annuncia il giorno. Bene. Mi preparo, faccio la valigia e scendo. Un profumo di brioche caldo stimola il mio stomaco. Al bar ci sono due uomini,

rappresentanti, dall’aspetto e dall’abbigliamento.

Hanno un chiaro accento milanese. La signora Luisa

Prepara cappuccini e caffè. Ordino un latte macchiato e brioche. Mi siedo al tavolino e sfoglio il giornale.

Le solite chiacchiere. Prendo la valigia e saluto tutti.

Luisa sorride per la prima volta. Ma lo sguardo indaga sempre i miei occhi e la mia cicatrice.

Faccio benzina e raggiungo il mio nuovo appartamento. E’ comodo, piccolo e pulito, in centro e con posto auto. Perfetto. Apro tutte le finestre per arieggiare. Controllo gli utensili.. C’è tutto ciò che mi serve. E’ ora di andare. La palazzina è di tre piani con sei appartamenti in tutto. Discreta e silenziosa.

Raggiungo Villa Bocassini. Svolgo il mio lavoro in silenzio. La signora Clelia viene a portarmi un caffè ed una bottiglia d’acqua verso le 10.00.

“ Signor Castaldi, si fermi un attimo. Faccia una piccola pausa.” “ Grazie signora Clelia ci voleva proprio. “ Mi siedo sulla seggiola di legno e paglia.

Lei attende silenziosa che abbia finito. Intanto mi guarda. Tiene le braccia dietro la schiena da perfetta cameriera. Mi porge un tovagliolo pulito. Mi pulisco la bocca e glielo riconsegno garbatamente. Riprendo il mio lavoro e lei il suo. Alle 12.00 interrompo il mio lavoro come da disposizioni. Esco dalla porta sul retro. Non ho voluto le chiavi. Clelia apre e chiude ogni volta che entro ed esco. Passeggio fino alla piazza e passo davanti alla “ casa Lavanda”. L’ho battezzata così. L’aiuola è lì. Ancora secca.

Noto alcuni piccoli germogli alla base dei rami.

Sorrido. L’ho salvata. Tende tirate. Silenzio. Nessun gioco, nessuna altalena, nessun cane ad animare quel giardino. Freddo come chi lo abita.  I giardini rispecchiano le persone che li vivono. Come le case.

Non resisto alla tentazione. Mi avvicino a Lavanda, ormai siamo diventati amici. Eh sì, si sta riprendendo.

Il terriccio è troppo inzuppato. Non va bene così.

“ Senta, che sta facendo?” Ecco Misstressara all’attacco. Cattiva ragazza frustrata. “ Sto sistemando la lavanda. Vedi ci sono dei piccoli germogli. Ma non dovete innaffiarla troppo.”

“ Alle piante e ai fiori ci pensa mia madre. Lei sa quello che fa.” “ Non credo proprio. Dille di spruzzare acqua sui rami e dare poca acqua sul terreno. Capito ragazzina?” “ Mi chiamo Samantha e faccio quello che mi pare” Tira fuori la lingua in segno di scherno.

Attira gli schiaffi come il miele le api. Mi trattengo. Mi alzo e me ne vado. Non la saluto. “ Perché ha quella cicatrice sul viso eh?” Non le rispondo. Mi allontano e la saluto con la mano. Mangio un panino in piazza e ritorno alla villa. Verso le 17.00 Clelia mi viene a chiamare. E’ ora di andare. La saluto ed esco dal retro. I miei giorni continuano tranquilli. Il mio lavoro è molto soddisfacente. In primavera il giardino di Villa Bocassini è un gioiello di architettura floreale.

Amanda non finisce mai di ringraziarmi con il suo sorriso giallo sole. Tutte le sue amiche la invidiano e io sono felice per lei. Amanda ama le piante come me. Ce ne stiamo in silenzio per ore. Lei prepara i vasi, raccoglie fiori, sistema le aiuole con amore.

Siamo complici della natura. Amiamo madre terra e sorella acqua. Siamo lontani dal mondo. La mia professionalità ha raggiunto più famiglie altolocate ed ora sono il giardiniere più ricercato di tutta Cisa.

Lavanda cresce bene. E’ tutta coronata di fiori splendenti. E’ il mio portafortuna. Pomeriggio afoso oggi. Calura malefica. Sudore appiccicoso, zanzare succhia sangue. Me ne sto sul balcone a cercare un filo d’aria. Neanche a pagarlo. Tutta l’aria se ne è andata in montagna, con giusta ragione, dico io. Il campanello suona. Mi alzo malvolentieri, sono fiacco e stanco. Sulla soglia compare Samantha. Rossa in viso e con un’aria ansiosa. “ Buongiorno signor Castaldi, posso entrare? Dovrei…” “ Ma certo Samantha, entra pure”. Cammina lentamente, stringe il suo zainetto. “ Hai sete? Un bicchier d’acqua fresca?” “ Ehm, sì grazie, fa  tanto caldo oggi”.

“Io….volevo…Signor Mario…vede…” “Su, Samantha

Non avere paura, non mordo mica. Non sono il lupo mannaro e tu non sei Cappuccetto Rosso, giusto?”

Beve avidamente l’acqua, la tensione fa venire sete.

Rimango seduto vicino a lei sulla poltrona. “ Vorrei chiederle se poteva venire anche da noi. Se poteva curare il giardino. Mia mamma non è così brava come le ho detto e non ha affatto il pollice verde. Io potrei imparare da lei.” “ Ma certo Samantha, con molto piacere. Perché non me lo hai chiesto prima?”

“ Bé, avevo un po’ di suggestione, mi sentivo in colpa per le parole ed il tono che avevo usato con lei.”

La guardo. Non dico nulla. “ E…poi…lei…mi fa un po’ paura…ecco…” “ E perché mai Samantha?” “ Per quella cicatrice che ha sul viso. Assomiglia proprio ad un carcerato evaso di prigione. Avevo visto delle foto tempo fa.” Deglutisce. Beve un sorso d’acqua. Mi fissa la cicatrice. “ “ Lei non è un prigioniero vero Signor Castaldi?” Samantha non ricevette mai una risposta. Ma, la sua Lavanda continuava a crescere bella e rigogliosa. Chissà, certi concimi sono meglio di altri.

 

 

 

 

 

 

 

Feb 16, 2012 - racconti    Commenti disabilitati su ALFREDO

ALFREDO

 

 

“ Alfredo, cosa stai facendo ? ”  Niente, mamma. “ Non è vero, ho visto benissimo, stavi sbirciando dalla finestra, come al solito, eh? “ Ti ho detto mille volte di non guardare fuori, è pericoloso… Tutti quei ragazzacci che si drogano, il marciume è in agguato e tu, il mio dolce bambino non può essere toccato. “ “ Sì mamma, non lo farò più. “ “ Su da bravo, ora vieni a tavola, è pronta la cena. Lavati le mani! “ “ Sì mamma. “ Alfredo rimane lì in piedi in mezzo alla stanza, con i pantaloni blu, la camicia bianca e le bretelle rosse. Alfredo ha 30 anni, il suo aspetto è normale, il comportamento un po’ meno. Lo sguardo è triste, come gli oggetti che lo circondano: un letto, un armadio, un tavolo ed una finestra, sua unica interlocutrice fra lui ed il mondo. “ Alfredooo! “ Quella voce così stridula ed ormai così abituale, gli ricorda il momento atroce e ripetitivo della cena. La preghiera del Ringraziamento prima e la lettura del salmo, poi. “ Mamma è buona e brava e si prende cura di me “ pensa tra sé. “ Perché non mi lascia mai uscire da solo, devo sempre andare con lei a fare la spesa, non mi porta mai al cinema, dice che non è istruttivo e sono tutte cose false e brutte. Io non ci credo, ci sono tante belle ragazze sui cartelloni. Alfredo al solo pensiero arrossisce. Di solito trascorre ore ed ore a fantasticare, a giocare con i pensieri e le immagini che lo vedono protagonista di mille avventure. I giorni passano lunghi, interminabili e tremendamente uguali. Un pomeriggio come tanti altri, Alfredo osserva un pettirosso sul davanzale della sua finestra. Con il viso tra le mani e lo sguardo trasognato si perde tra i meandri tortuosi della sua mente. Ad un tratto un rumore sordo lo fa trasalire, si sporge subito dal davanzale per vedere meglio cosa sta succedendo. Agli occhi di qualsiasi altra persona, la scena che si presenta è del tutto normale, ma agli occhi d’Alfredo è davvero speciale. Una macchina parcheggiata, una cassa rovesciata sul marciapiede ed in piedi, una ragazza. I capelli neri, leggermente ondulati, raccolti con un nastro rosso, la figura snella ed aggraziata riempiono il cuore di Alfredo. Una strana agitazione sorprende il nostro dolce amico mentre guarda quella bellissima creatura…E’ lei la donna dei suoi sogni. E’ così contento, comincia a saltare sul letto. Sua madre entra nella stanza di corsa “ Alfredo, sei impazzito, che cosa stai facendo?  “ No, non sono impazzito, sono solo contento, è arrivata una nuova vicina , dovremo darle il benvenuto, come abbiamo fatto con il Signor Benetti . Guarda, è davvero carina.”  La signora si affaccia alla finestra e vede la bella giovane entrare nel villino. Una forte rabbia s’impossessa della sua mente. “ Non inviteremo proprio nessuno a casa nostra, tanto meno quella lì. Non azzardarti più a guardare fuori, quella donna sarà senz’altro una poco di buono, non vedi com’è vestita. Non devi assolutamente parlare con lei. Hai capito? “ Alfredo asserisce con la testa e gli occhi bassi pieni d’ira. “ “ Me lo devi dire ad alta voce, avanti !” “ Sì, mamma “ Risponde Alfredo con le lacrime agli occhi. “ Oh, il mio povero bambino, non piangere, io ti voglio tanto bene e cerco solo di proteggerti. Sai, il male si nasconde in ogni cosa, anche in quelle belle, per ingannarci ed intrappolarci nella sua rete. Noi dobbiamo difenderci, cerca di fare come dico, ti prego.”

Alfredo la guarda triste e si allontana sconsolato. Si chiude nella sua stanza, corre subito alla finestra e scruta tra le tende la bella arrivata. Ogni giorno segue i movimenti con interesse e bramosia. Tutte le notti l’ immagine di lei tormenta i suoi sensi ed i sogni.

Di giorno Alfredo è spesso irrequieto, alza la voce e risponde male a sua madre. Una donna vedova e bigotta che ha cresciuto il figlio da sola, rendendolo timido e schivo, allontanandolo dagli altri bambini e chiudendolo in casa. Lui, il suo bimbo caro che doveva salvare dal mondo “ sporco “ e maledetto. Lui non era come quegli uomini che l’avevano maltrattata ed abbandonata, lui era casto e puro, le era sempre accanto e si occupava di lei . Tra i due si era instaurato un rapporto unico ed intoccabile. Le attenzioni della madre erano molto intense, spesso ossessive, non si accorgeva che Alfredo era cresciuto ed ormai il suo legame di figlio si stava trasformando. Cominciava a farsi uomo ed avere sentimenti e sensazioni differenti da quelli di un’infante. Non poteva sopportare l’idea che Alfredo guardava le ragazze per strada   con gli occhi sbarrati ed il viso arrossito. Alfredo le apparteneva, era il suo bambino ed il suo uomo. Il ruolo di madre e moglie si alternano continuamente creando stati di confusione in Alfredo che, ignaro di qualsiasi cosa, subisce senza comprensione il comportamento della  madre. Dal canto suo l’affetto era immenso ed il pensiero di non averla lo impauriva; in fondo era l’unica persona vicina e l’unico oggetto cui esprimere i propri sentimenti. Lui le voleva bene, lei lo amava. Ultimamente, però, le sue attenzioni si rivolgono soprattutto alla dolce Marta, eh sì, le piace proprio la vicina. Ogni giorno l’aspetta in giardino per salutarla e lei è sempre così gentile e sorridente. Una domenica mattina, armato di coraggio si presenta davanti alla porta di Marta con un mazzo di fiori. Rosso in viso e balbettante entra nel villino. Con imbarazzo, entrambe bevono il caffè e chiacchierano. E’ una bella giornata di primavera e le finestre sono aperte per far entrare i primi raggi tiepidi della stagione.  Un’aria fresca e profumata rende l’atmosfera quasi da sogno. Nella casa di fronte mamma Angela sta rassettando e solo per caso vede la scena romantica. Un improvviso calore la coglie.

“ No, non è possibile, Alfredo è mio e quella “ sgualdrina “ non può portarmelo via, non può! “

La rabbia circola nel sangue come fuoco nella paglia, i nervi sono tesi come corde d’archi pronti a colpire. “ Devo fare qualcosa, devo mettere fine a questa dannazione… “

Angela, come guidata da una forza oscura, si precipita in cucina, impugna il coltello sul tavolo, esce da casa e con furia irrompe nel villino. Alfredo e Marta sono in soggiorno seduti sul divano uno accanto all’altro, immobili. “ Figlio mio, come puoi tradire così la tua mamma, perché? “

Dicendo quelle parole si avvicina lentamente verso Marta e la fissa con odio. Alfredo non sa che fare, guarda la madre, attonito, poi si volta verso il tavolino, vede il grosso posacenere, lo afferra e come guidato da uno spirito, lo scaglia contro la donna inviperita.

La povera disperata è subito ricoverata in ospedale e dopo le dovute attenzioni, viene trasferita in una casa di cura.

Le uniche parole che continuava a mormorare sulla barella erano: “ Alfredo, non ti lascerò mai, tu sei mio, per sempre .” Marta si occupò di lui, aiutandolo a ritrovare nella sua mente quei

momenti di vita sottratogli dal troppo amore materno.

Feb 12, 2012 - racconti    Commenti disabilitati su LA GIOSTRA

LA GIOSTRA

                                                    GIOSTRA.jpg

Quella mattina di Gennaio faceva freddo, molto freddo. Anna, avvolta nel cappotto verde bottiglia, camminava veloce. Guardava avanti, il naso dritto e fermo tagliava l’aria gelida. Era molto presto e la via deserta dormiva, solo uno spazzino graffiava la strada lento e stanco. Tutto era fermo. Anna guardò il negozio di libri antichi e si fermò. Qualcosa di quella vetrina la colpì. Eccola, era là sopra un ripiano di libri, accanto al mappamondo, una piccola giostra di legno decorata a mano. Tutti i cavallini erano bianchi, fieri e teneramente finti. Anna si avvicinò, il fiato appannava il vetro, con il guanto pulì quel punto e si mise a scrutare quell’oggetto così bello ed attraente. Un’emozione dolce ed intensa le rapì il cuore e le colorì il viso, non ci poteva credere, stava guardando la giostra con gli stessi occhi di allora. Si, quando era bambina e la domenica andava alla fiera del paese con il vestito nuovo, il gelato in mano e nell’altra quella di suo padre. Anna fissando il giocattolo si rivedeva là sorridente, con i capelli al vento e la mano tesa a salutare.  Era così bello, tutto girava, le immagini scorrevano veloci, gioia e paura ballavano dentro al suo cuore. Si divertiva, era libera di urlare, di sgambettare, di volare in alto nel cielo azzurro… Guardava le persone a terra e felice ritrovava suo padre con il vestito chiaro e la sigaretta in bocca, la guardava e rideva. Dio, che bel suono la sua risata, forte e tenera, si confondeva con il trillo dei campanelli appesi ai cavalli. I tanti rumori si mescolavano tra loro, la confusione incombeva e tutto fluttuava armonioso. Perché non è più così ora? L’ampia fronte di Anna si corrugò, le labbra semiaperte si chiusero rigidamente mentre la campana della chiesa suonava la mezza. Quei rintocchi rimbombavano, si tappò le orecchie per non sentirli, il tempo la stava chiamando: ” Anna, Anna sbrigati è tardi, su corri, corri…”Agile come una gazzella si voltò di scatto e cominciò a correre verso la piazza; vedeva la corriera in lontananza, stava per partire. Con il cuore in gola ed il fiato tra i denti si sbracciava per farsi notare dall’autista. Ad un tratto si fermò, si voltò indietro e poi di nuovo verso la piazza. Era in piedi, pallida ed attonita, perché esitava? Che cosa stava succedendo? Doveva prendere quel maledetto autobus! Perché tentennava? Erano forse i campanelli della giostra a distarla? Sì, erano loro, quel suono tanto festoso, amato e dimenticato in un angolo remoto del cuore, soffocato dal tran tran della vita. Anna voleva sentirlo di nuovo, sì, certo era sicura, le sue emozioni non erano spente, erano vive, solo un po’ impolverate ma pronte a fremere di nuovo. Di corsa saltò sull’autobus e si sedette soddisfatta e palpitante.

Scese all’ultima fermata, non in città ma in paese. Raggiunse il parco. La sua giostra era là, un po’ scalcinata ed arrugginita, ma bella ed imponente come allora.

Anna si avvicinò e spinta da una forza magnetica salì sulla pedana e si sedette sul suo cavallo preferito: Brunello. 

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