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Gen 27, 2018 - racconti    Commenti disabilitati su FAVOLA – Racconto di Renzo Cigoi

FAVOLA – Racconto di Renzo Cigoi

IL TORRENTE IN PAESE

Ho letto questo racconto intenso di Renzo Cigoi e la mente é corsa veloce all’immagine dell’Olocausto,

i piccoli abeti strappati dalla nuda terra e destinati ad arredare le calde case borghesi,

accatastati sui grandi camion, i rami spezzati, gli aghi dispersi lungo la via,

mi riportano alla cattiveria umana, all’insensibilità dell’uomo verso la natura e verso gli altri uomini.

Un’appello:

lasciate gli abeti là dove devono stare,

lasciate la disumanità lontano dai vostri cuori.

Parole forti di Renzo Cigoi, immagini potenti di un grande scrittore

capace di suscitare emozioni forti e riflessioni costruttive.

Da leggere, assolutamente.

 

FAVOLA racconto pubblicato all’interno della raccolta “ Basso Continuo  ( e altri racconti ) “ di Renzo Cigoi

Edizioni Opposto 2013©. Tutti i diritti sono riservati.

 

Recensione di Federica Bignardi :

 http://www.leggeretutti.net/site/basso-continuo/

 

FAVOLA

Come é sempre stato, perché la Storia non ha mai insegnato nulla a nessuno, c’era una volta una fredda mattinata di metà dicembre. Nella grande radura, immersa fino a quel momento in un silenzio d’acquario, come una mandria di animali preistorici dalle fauci fumanti arrivarono gli autocarri. Ai margini dell’abetaia buia e profonda, tra l’abbondante Santoreggia e le gramigne alte e giallognole, sottili e appiattite sfumature di tenero verde brillavano pulsando sotto l’esile crosta di rugiada ghiacciata come schegge di smeraldo in un covone di fieno. Erano le foglie picciolate a rosetta e fiori in spighe verdognole della Piantaggine maggiore che, aderenti alla terra, cercavano un residuo tepore; vicino ad esse, da sembrare quasi pianticelle di fragola, stavano accartocciate quelle dell’Edera terrestre e, un po’ dappertutto, le foglie a lama seghettata del Tarassaco, o Dente di leone, o  la cicoria selvatica che d’estate produce quella simpatica margherita gialla simile al fiore dell’Arnica e poi i soffioni. Tra tutte quelle tonalità di possibili verdi, il più cupo, carico e opaco, da sembrare quasi di cartone, era il verde del Pungitopo, che con le sue bacche rosso fuoco a prova di qualsiasi freddo emergeva dal sottobosco come un segnale di pericolo. Equipaggiati come esploratori polari, gli uomini scesero dai camion inoltrandosi nel folto del bosco con le armi in pugno come una muta di cani all’inseguimento della selvaggina. Difatti, immediatamente si avverti nella foresta una specie di timido fruscio di creature in fuga; qualcosa d’impercettibile, però, che più che vedere s’intuiva: forse un soffio, un caldo brivido di pellicce e fiati ansimanti… Poi tutto si confuse nelle grida degli uomini scatenati e il rumore di cascata che produceva la bora tra i rami delle conifere: boato di uomini e cose che pareva un profondo lamento della Terra. Stanandoli uno a uno nella macchia, tra il brusio dondolante e malinconico dei più grandi, tristi, immobili e impotenti davanti a quella “strage di innocenti”, gli uomini cominciarono ad abbattere gli abetini la dov’erano più fitti. Le vittime erano giovani e ancora bassi, ma quasi tutti ben formati, con i finali tripartiti dei rami di un verde metallico fitti di lunghi aghi come la coda delle volpi argentate, eleganti e forti, pronti per affrontare l’inverno e il gran freddo dell’altipiano carsico. Agli occhi di chi non apparteneva alla loro specie, una particolare nota sembrava renderli del tutto uguali: piccoli e meno piccoli, tutti possedevano una bellezza stupenda e, nella loro fiera immobilità, avevano soprattutto un aspetto talmente nobile e orgoglioso da incutere quasi soggezione. Dalla cappa dell’infinito plumbeo comincio a scendere un pesante nevischio. L’abetaia si copri di un bianco sudario, ma ben presto divento fradicia e molle come una palude. I più grandicelli, appesantiti dalla neve bagnata, si piegavano sotto i colpi delle accette lasciandosi scivolare sfiniti lungo i rami del vicino con un rumore di corpo senza vita che cade nel fango. Gli uomini di Erode lavoravano sodo: allargandosi a ventaglio per compiere meglio la strage, come un uragano penetravano in ogni recesso della selva con un metodo collaudato da anni, che consisteva nel rastrellare il bosco stanando con sadica gioia i più piccoli. Questi si tenevano stretti uno attaccato all’altro quasi in una specie di muto terrore; e quando gli uomini ne trovavano uno particolarmente bello– la chioma folta con la punta regolare e diritta, le braccia aperte e simmetricamente tese dall’alto in basso, dalle più corte alle più lunghe, in modo da formare una verde piramide, – si chiamavano l’un l’altro; pero non perche incantati da quella magnificenza della natura, ma solo per commentare la cifra che sarebbe stata sborsata dai ricconi di città per un’esemplare del genere. Un gruppo di quattro o cinque battitori che lavoravano assieme disprezzavano quegli sciocchi commenti dei compagni meno esperti, in quanto per loro quel massacro non era un divertimento ma un lavoro serio, era il mestiere, il pane pagato a giornata e una preda valeva l’altra: i soldi li avrebbe fatti il padrone dei camion, non certo loro che abbattevano gli alberi! Importante era stanare i piccoli perche i più richiesti, e anche qualcuno un po’ più grande, magari violando la legge che gli proteggeva. Oppure, esauriti gli abeti di taglia bassa, tagliare le cime di quelli più alti, mutilandoli cosi di una regolare crescita, tanto non controllava mai nessuno! Ma bisognava stare molto attenti di non rovinarli troppo durante il taglio; per il resto si poteva picchiare e segare dove capitava… Il filo delle asce accuratamente affilato si abbassava con precisione – quasi in maniera indolore, si sarebbe potuto pensare, – su quelle verdi esistenze clorofilliane che cadevano senza un lamento o un qualsiasi suono percepibiledall’orecchio umano. Ed era proprio questo trascendente silenzio della vittima che aveva in se qualcosa di terrificante e di misteriosamente primordiale. Ma qualcosa di simile a una specie di muta ribellione doveva pur esserci in quella verde immobilità, se al momento di cadere sembrava che l’aureola luminosa, di cui quegli esseri erano soffusi quando dimoravano nella terra, degradasse in toni sempre più smorti e opachi, per poi sparire quasi del tutto: forse la loro voce era un ultrasuono, o il piccolo schianto di ossa spezzate, se poi quella particolare luce di esseri vivi svaniva nel buco nero dell’atmosfera del pianeta… Da quel momento, se apparentemente tra uno di quegli esseri che erano stati vivi e vegeti nel bosco e un’esatta copia di plastica non passava che una minima differenza, ad ampliare questo “minimo” era proprio quella luce aureolare svanita per sempre. Che pero gli “uomini di buona volontà” avrebbero cercato di rimpiazzare con quella elettrica, colorata e intermittente, stupidamente convinti che fosse migliore come tutte le loro trovate. La specie umana, in occasione dei suoi annuali ludi pseudo religiosi, perpetrava l’annientamento di quella specie vegetale ripetendolo regolarmente da tempo immemorabile. Per altre motivazioni o cause si sarebbe usata una parola diversa, più appropriata; ma le “motivazioni” o “cause” avrebbero dovuto toccare direttamente coloro che commettevano questi delitti contro la specie a cui appartenevano; allora lo avrebbero chiamato “genocidio”, “shoah”, o anche “olocausto”; parola in ogni caso sbagliata, perche nessun uomo, a parte Empedocle, si e mai dato in olocausto. La nostra specie sacrifica solo esseri innocenti. I deforestatori trasportarono quegli esseri bellissimi sugli autocarri – pero di una bellezza ormai imbalsamata, inerte al vento e alla neve, alla pioggia e al sole, che solo la fine di un ciclo vitale, la morte, e in grado di conferire, – accatastandoli uno a uno all’interno di quella specie di bara comune provvisoria in un groviglio di chiome, rami, aghi, cortecce ferite, tronchi scorticati e sanguinanti di dense, profumate resine, vivi solo in apparenza perche verdi. Dopo un viaggio di chilometri, arrivarono in città e li scaricarono su una stupenda piazza a selciato romano. La piazza aveva una grande fontana nel mezzo contornata di piccioni e due bellissime chiese, una delle quali con le cupole azzurre che si confondevano nel cielo come enormi nuvole primaverili sospese nel vento. L’altra esibiva un imponente pronao, sulla sommità del quale una fila di santi taumaturghi a grandezza naturale vegliava sul popolo sottostante. Arrivarono altri uomini che li allinearono sul selciato come giovani soldati morti, ma sul loro mantello il profumo della foresta e della terra del bosco non si sentiva piu: si erano portati dietro soltanto una lieve fragranza di resine, come l’odore del sangue di una mortale ferita; ma ben presto sarebbe svanita anche quella nell’aria satura di gas di benzina e zolfo. A ognuno venne inchiodata una croce ai piedi per farli stare diritti come quando erano nella foresta; a certi, prima  di metterli sopra la croce, gli segavano le braccia piu lunghe, che poi gli uomini accatastavano separatamente in un mucchio: quelle ramaglie servivano per confezionare dei manichini somiglianti ai cadaveri a cui le avevano strappate. Tutto quel lavorio veniva fatto con grande frenesia, poiche tra qualche giorno la gente sarebbe arrivata a frotte per comprare e caricare sul tetto dell’auto uno di quegli esseri in coma profondo, portarlo in una casa surriscaldata, vestirlo di elettricità e neve di plastica e poi collocarlo davanti al caminetto, ai piedi del quale era già allestito il Presepe con San Giuseppe, Maria e il bambino Gesù nella mangiatoia; una casa dove sarebbero morti disidratati e ustionati tra bottiglie di spumante e panettoni, brindisi, baruffe, pianti, rutti e sghignazzi, e a mezzanotte in punto soffocati da mille esplosioni e da un potente: Buon Natale!! urlato da tutti quegli infelici figli del consumismo senza pero comprenderne il significato… Dodici giorni dopo, i cassonetti dei rifiuti della città si sarebbero riempiti di centinaia di quelle secche spoglie, chefino al momento di quel blasfemo boato avevano sperato dipotersi risvegliare nel vento della foresta dov’erano nati.

Feb 11, 2015 - opinioni    Commenti disabilitati su Basso Continuo di Renzo Cigoi – Per non dimenticare

Basso Continuo di Renzo Cigoi – Per non dimenticare

basso-continuo

BASSO CONTINUO”  DI RENZO CIGOI

<<Renzo Cigoi, poeta e narratore, vincitore di prestigiosi premi di narrativa e di poesia italiani, è stato finalista al Premio Calvino con il suo romanzo inedito Biblion. Sue poesie e racconti sono stati tradotti e pubblicati in sloveno, romeno, russo e francese.

 

Basso continuo e altri racconti di Renzo Cigoi (Edizioni Opposto, Roma. € 14,00) www.opposto.net >>

Commento di Federica Bignardi

http://www.leggeretutti.net/site/basso-continuo/

Intervista con Renzo Cigoi

http://www.gliamantideilibri.it/archives/30423

 

 

PER NON DIMENTICARE QUEI GIORNI

 

PER RICORDARE CHI NON C’E’ PIU’

 

PER TRARRE INSEGNAMENTO DA CHI E’ SOPRAVISSUTO E NON SI LAMENTA MAI DI QUELLO CHE HA PERCHE’ HA PROVATO SU SE STESSO LA FAME E LA MISERIA

 

A VOI  LASCIO LE MIE IMPRESSIONI ACCORATE E SPONTANEE SCATURITE DOPO UNA LETTURA INTENSA E COMMOVENTE

 

 

 

 

Cara Olga, oggi 17 ore 7 fucilati innocenti.

La mia salma si trova di qua dal fiume della scuola dove sta Albegno.

Tu puoi prendere la mia salma anche a Mezzogiorno di oggi.

                                                 

                                                                          Vittorio Tassi “

 

Così esordisce il racconto “ I Perdenti “  di Renzo Cigoi, così leggono i miei occhi , così la mia mente rimane immobile, così il mio cuore si ferma per un attimo. Rileggo incredula.

Ciò che colpisce è la semplicità della morte, un evento scontato, un biglietto sgualcito nelle  mani di una donna che ritira il corpo del marito come un pacco postale. Il “cara” a sottolineare un legame affettivo che sarà interrotto da lì a poco. 7 Innocenti muoiono oggi, la guerra se li porta via come foglie secche sul fiume della Patria, della Nazione, della Vittoria. Rigagnoli rosso sangue ridono di giovani invaghiti dall’ideale, spronati dalla sete di Gloria, annebbiati dall’oppio dell’ipocrisia aristocratica. Si beffano di uomini maturi che imbracciano un fucile, camminano nel fango e ogni tanto sentono “ Splash! Splash! I corpi dei propri compagni cadere nel fiume” …”Era come essere in un macello asiatico dove gli animali appena scannati respiravano ancora…”  . Crude immagini di “ Basso Continuo” immortalano disperate carcasse umane mandate a morire come mosche sullo sterco ancora caldo della Russia lontana, senza motivazione, senza ordini precisi, senza ideologia. Triestini, sloveni, ucraini uniti dall’ “unico desidero sincero  di appoggiare quella rivoluzione perché era fatta di gente che moriva di fame e non aveva ancora maturato nessuna chiara presa di coscienza ideologica : chi aveva mai sentito parlare di Lenin o Marx!”  L’assurda, inconcepibile miseria dell’uomo che esorcizza la morte con la guerra come facevano gli antichi con i sacrifici umani agli dei per allontanare questa inevitabile ed invincibile paura.  Per respirare questo fetore bisogna attraversare le “grise”: tra lame di roccia tagliente come coltelli, si cammina sopra un cimitero, distesa di tombe al cielo aperto, esposte come in un museo della morte, dove ci sono tutte le facce di coloro che sono morti qui lungo i secoli: tratti e profili di ogni etnia e popoli del pianeta scolpiti dal vento e dalla pioggia…sono le voragini delle foibe: fosse comuni senza lapidi né nomi…”

Sento le ossa scricchiolare sotto di me, sento il rumore del dolore mescolarsi a quello del vento freddo. La montagna della morte grida silenziosa contro un cielo azzurro e lo maledice per la sua bellezza. Può l’uomo concepire una tale distruzione? Può l’uomo distruggere se stesso e i suoi simili con tale semplicità ? Sì, può. Racconti snocciolati davanti ad un bicchierino, tra fumo di sigaro ed una mano di carte.  Visi scolpiti nella pietra della dura verità.

Divise malconce impiastricciate di brodaglia penzolano dai rami sempreverdi dell’idiozia umana. Avventori, turisti,, passanti osservano distratti massi grigiastri di solitudine e disperazione. Un uomo solo si ferma immobile e guarda un crepaccio, il ricordo di quel giorno lo attanaglia: “ In quel momento mi sono sentito invadere da una fredda angoscia, avevo capito che quella era una madre che aveva supplicato per la vita dei figli mentre l’umanità che le stava intorno era improvvisamente ritornata prigioniera delle antiche epoche oscure.”

Il Carso ingoia tutto, corpi, ricordi, rimorsi e nostalgie. E’ là e ci rammenta che “ i ricordi sono fatali ed è legittimo pensare che nessuno, dopo aver lacerato con la memoria il proprio Sé possa illudersi di sperare nel paradiso “La semplicità delle espressioni contrasta con una sana consapevole filosofia di pensiero, purezze di idee raccontante da personaggi semplici, comuni, a volte rozzi che attraversano le pagine di questa preziosa raccolta di memorie. Struggenti descrizioni della natura addolciscono i tratti crudi e violenti della narrazione, quasi a scusarsi, quasi a compensare il dolore di certe parole, di certe immagini inquietanti, nubi soffici e legno caldo, note delicate tra fiumi di porpora: “ Fuori, sul limitare del bosco di querce, tra i rami spogli degli alberi contro un cielo di pesca sanguigna, l’occhio felino della luna al suo primo quarto spiava un cane che abbaiava lontano…”.Sono piccoli quadretti appesi ai muri della malinconia e all’amore verso la natura violenta di quei luoghi. La pietà non esiste e lo scrittore lo sa e ce lo ricorda con il racconto a me più caro. “” Favola”. Una stupenda metafora dell’olocausto e dei genocidi in genere. I corpi dei piccoli abeti nella macchia boscosa vengono trucidati brutalmente da asce affilate. Ciuffi verdi e sorridenti strappati violentemente dalla madre Terra come radici secche. Forti tronchi estirpati frettolosamente vanno a riempire camion carichi di rami, aghi, creature morenti accatastate una ad una in una specie di bara comune”…solo una lieve fragranza di resina come l’odore del sangue di una mortale ferita…” restituiva loro un minimo di dignità. L’ultimo atto prima di venire impalati in piazze adornate a festa, prima di essere rinchiusi in case calde e soffocanti per il sorriso prepotente di bambini capricciosi e l’aria compiaciuta di padri indifferenti al valore di questi nobili esseri eterni.

Al cadere dei primi aghi, un viaggio verso il cassonetto, l’odore disgustoso delle immondizie ricopre definitivamente l’aroma essiccato. Rami a bruciare nei camini, mentre il fumo sale e fiocchi biancastri dipingono il cielo. Tu piccolo abete volevi risvegliarti sereno nella tua foresta ed invece vaghi senza meta trasportato via dal vento della violenza umana.

 

 

Federica Bignardi